La rabbia silenziosa degli operatori: un grido d’aiuto nel mondo della cura delle demenze

 

Sempre più spesso, nei contesti assistenziali che si occupano di persone affette da demenza, si percepisce un sottile ma persistente sentimento di rabbia e frustrazione da parte di operatori socio-sanitari, infermieri e altri professionisti della cura. Questa rabbia, seppur spesso non esplicitata, emerge nei rapporti tra colleghi e, ancor più gravemente, nella qualità delle relazioni con i pazienti. Un fenomeno particolarmente allarmante, perché coinvolge persone vulnerabili, spesso non in grado di comprendere né di reagire.

Un contesto ad alta pressione

Lavorare con persone con demenza è emotivamente e fisicamente impegnativo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), oltre 55 milioni di persone vivono oggi con una forma di demenza nel mondo, e si prevede che questo numero supererà i 150 milioni entro il 2050. In Italia, l’ISTAT stima che siano più di 1.100.000 le persone affette da demenza, con circa 600.000 casi di Alzheimer.

Chi opera in questo campo si confronta quotidianamente con comportamenti complessi: agitazione, disorientamento, apatia, aggressività, difficoltà comunicative. A ciò si aggiungono condizioni lavorative spesso precarie, con carichi di lavoro eccessivi, carenze di personale, turni estenuanti e supporto psicologico pressoché assente.

Burnout e stanchezza da compassione: le radici emotive della rabbia

Il termine burnout è stato coniato nel 1974 dallo psicologo Herbert Freudenberger, per descrivere lo stato di esaurimento fisico e mentale riscontrato nei volontari di una clinica per tossicodipendenti. Successivamente, Christina Maslach, docente all’Università della California, ha approfondito il concetto, identificando tre dimensioni principali:

  • Esaurimento emotivo
  • Depersonalizzazione
  • Ridotta realizzazione personale

Nel settore della cura, questo si manifesta con un indebolimento della capacità empatica, una crescente distanza emotiva e una perdita di senso nel proprio ruolo.

Un’altra lente utile per leggere il fenomeno è quella della “compassion fatigue” (stanchezza da compassione), una condizione di logoramento psicologico che colpisce chi assiste persone in difficoltà per lungo tempo, con scarsi risultati visibili. Si tratta di una forma di stress secondario, che spegne lentamente l’entusiasmo e trasforma la dedizione in frustrazione, irritabilità e cinismo.

Dalla frustrazione alla rabbia: un passaggio insidioso

Quando un operatore percepisce che il proprio sforzo non produce miglioramenti visibili, o non viene riconosciuto da colleghi, superiori o familiari, può nascere una rabbia interiorizzata. Questa, se non elaborata, può manifestarsi in due direzioni:

  1. Verso i colleghi – in forma di giudizi, scontri, mancanza di collaborazione.
  2. Verso i pazienti – attraverso atteggiamenti freddi, meccanici, impazienti o addirittura svalutanti.

Le persone con demenza, spesso non in grado di difendersi o comprendere appieno le dinamiche relazionali, diventano vittime passive di questo disagio sommerso. È un fenomeno che mina in profondità la qualità della cura e che rischia di normalizzarsi come “parte del lavoro”.

Un disagio sistemico

Questa rabbia diffusa non è solo il risultato di dinamiche personali. Essa rappresenta il sintomo di una crisi organizzativa e culturale. Molti contesti assistenziali mancano di:

  • Spazi di ascolto e supervisione emotiva
  • Formazione specifica sulla gestione relazionale del comportamento disturbato
  • Politiche di valorizzazione reale del personale di cura

La rabbia è, dunque, un segnale da ascoltare, non da reprimere o stigmatizzare. È una richiesta implicita di senso, riconoscimento e sostegno.

Quali risposte possibili?

Per arginare questa deriva e promuovere un ambiente sano per operatori e pazienti, sono necessarie azioni concrete:

  1. Formazione continua non solo tecnica, ma anche comunicativo-relazionale.
  2. Supervisione clinica ed emotiva, con incontri periodici per rielaborare le esperienze.
  3. Spazi di debriefing dopo situazioni difficili o traumatiche.
  4. Team multidisciplinari coesi, che facilitino la corresponsabilità e il supporto reciproco.
  5. Riconoscimento sociale ed economico del lavoro di cura, troppo spesso svalutato.

La qualità della relazione è il principale indicatore di benessere per chi è affetto da queste patologie. E per costruire relazioni di qualità, è necessario che anche chi cura stia bene.

Conclusione: ritrovare il significato

Il lavoro di cura, specialmente con persone fragili, richiede un equilibrio delicato tra tecnica ed empatia, tra professionalità e umanità. Quando quest’equilibrio si spezza, si apre la strada al malessere e al conflitto.

È fondamentale riconoscere la rabbia come un sintomo — non di debolezza, ma di sovraccarico. Riconoscerla, ascoltarla, affrontarla. Solo così può diventare occasione di crescita individuale e collettiva.

“Quando non siamo più in grado di cambiare una situazione, siamo chiamati a cambiare noi stessi.”
Viktor E. Frankl

Un invito alla trasformazione interiore, che può riaccendere il senso profondo del prendersi cura: non come sacrificio, ma come scelta consapevole e condivisa.